Sarà l’Olimpiade che segnerà lo sdoganamento della salute mentale in ambito sportivo? Chi lo sa. Non si può però fare a meno di notare che siamo solo al 5° giorno di gare di Tokyo 2020 e già il tema rimbalza dalla pedana della ginnastica artistica al trampolino dei tuffi, passando per il rettangolo del tennis.
Non atleti super-uomini, non atlete super-donne ma uomini e donne con fragilità, dubbi e insicurezze che scendono in pista portandosi sulle spalle il peso di aspettative proprie e altrui a volte troppo grandi da sopportare. Atleti e atlete che stanno sotto i riflettori e da cui ci si attende che siano espressione di forza, psichica oltre che fisica, che non abbiano fragilità perché un/una atleta è forte per definizione, si allena, sono corpi in movimento che spesso svuotiamo di emozioni e stati d’animo. Persone, prima ancora che sportivi, che spesso non vengono tutelate e che proprio nella prestazione sportiva, non sempre ma in alcuni casi, ricercano la risposta alle proprie fragilità.
E allora lasciamo la parola a Tom Daley, fresco campione olimpico di tuffi sincro dalla piattaforma: “Mi sento incredibilmente orgoglioso di dire che sono un uomo gay e anche un campione olimpico. Quando ero più giovane non pensavo che avrei mai raggiunto qualcosa a causa di chi ero. Essere un campione olimpico ora dimostra che si può raggiungere qualsiasi cosa”; a Simone Biles: “Sono un po' più nervosa adesso quando salgo in pedana. Sento che non mi sto divertendo più come prima. So che questi sono i Giochi, volevo farli ma in realtà sto partecipando per altri, più che per me. Mi fa male nel profondo che fare ciò che amo mi sia stato portato via. Non appena salgo in pedana siamo solo io e la mia testa... e lì ci sono démoni con cui devo confrontarmi. Non ho più fiducia in me, devo fermarmi e pensare alla mia salute”; e Naomi Osaka…ah no, lei non riesce nemmeno a parlare ma solo a piangere in panchina durante e dopo il match che l’ha vista uscire dalle Olimpiadi. Ma ancora risuonano le sue recenti affermazioni dopo il ritiro dal Roland Garros in cui aveva chiesto di non doversi sottoporre al rito della conferenza stampa post partita (richiesta respinta, peraltro): “Entro ed esco da periodi di depressione dal’US Open del 2018”.
Depressone, ansia, bulimia, scarsa autostima, discriminazione…per chiamare le cose con il loro nome. Può sembrarci strano ma dare un nome alle cose le spoglia della paura che le avvolge, perchè se una cosa ha un nome allora forse esiste anche una soluzione.
Tom, Simone e Naomi, ci ricordano che la tutela della salute mentale è una priorità. Questa tutela forse è mancata a questi atleti o quantomeno è stata subordinata ad aspettative, interessi e pressioni esterne. Lo dimostrano i titoli scandalistici sui giornali e lo spazio che morbosamente tali temi stanno occupando nei media. Ci scandalizziamo, anziché normalizzare. Amplifichiamo, quando si dovrebbe detonare.
Fintanto che affermazioni come quelle di Biles, di Daley e di Osaka faranno notizia e non saranno prese come normali espressioni di un disagio che può toccare ciascuno di noi, la salute mentale continuerà a rimanere un taboo e a non ricevere le tempestive e adeguate forme di supporto.
Una cosa però è certa. L’outing coraggioso di questi 3 atleti sarà di esempio per tanti giovani e meno giovani, rendendo dicibile l’indicibile. Creando una crepa nel pregiudizio e nella vergogna che accompagna il tema della salute mentale. Perchè si può vincere in tanti modi e loro in questo hanno vinto.